Sabato 1 dicembre alle ore 11 in aula 13 Laura Pasetti, interprete di Masha
ne "Le tre sorelle" di Cechov in scena al Teatro Strehler in questi giorni, parlerà della
messa in scena, della regia e del percorso di preparazione dello spettacolo.
La lezione del corso del triennio avrà luogo dalle 10 alle 11
Il ricevimento studenti avrà luogo dalle 9 alle 10
La trama
Ol'ga, Masha, Irina e Andrej Prozorov vivono soli dopo la morte del padre. Ognuno di loro ha le proprie frustrazioni e non riesce a comunicare con l'altro: Ol'ga è annoiata del suo lavoro come maestra, Masha non ama suo marito Kulygin ma è innamorata, ricambiata, di Versinin, sposato, con due figlie, e una moglie che tenta il suicidio svariate volte; un uomo innamorato, ma che infine deve congedarsi da Masha, la donna che ama. Irina è la minore delle sorelle e il suo desiderio di andare a Mosca per liberarsi della solitudine è talmente grande che accetta di sposare il barone Tuzenbach anche se non l'ama, ma quest'ultimo muore in duello ucciso da Soliony, altro pretendente di Irina. Andrej aspira a diventare un professore di cattedra universitaria, ma sposa una donna insensibile e meschina, Natasha, e si chiude in se stesso e nella sua infelicità (nonostante abbia tre sorelle, confida le sue pene al vecchio usciere Ferapont che è sordo). Una storia in cui essenzialmente non accade nulla, dietro cui si cela però una profonda analisi dell'animo umano e dei suoi turbamenti, che Cechov analizza in maniera incomparabile.
Recensione dello spettacolo
Si apparecchia per un pasto che non verrà consumato. Si portano valige vuote per un viaggio che non verrà intrapreso. Si parla di un futuro felice e più consapevole che non ci comprenderà. Nell’impossibilità ad agire, nella difficoltà ad entrare in contatto, nella diffusa necessità di fuggire una vita che stenta a rivelarsi, Anton Cechov ripone speranze e dubbi sul futuro dell’umanità. La scienza chiarirà il presente solo in un lontano futuro, la Russia si riscatterà con sofferenza e lavoro, ma chi è disposto a sacrificarsi per chi verrà domani, temendo che la vita sia una sola, senza la speranza di una seconda possibilità?
Tre Sorelle è un capolavoro di solitudine, di interiorità, di mancanza di speranze e di capacità di analisi di tutte le vie d’uscita dalla condizione umana, serrate da noi stessi prima che da una società che non sarà mai in grado di mettere le nostre esigenze al centro della sua affollata piazza. Partire, cambiare amore, diventare qualcuno per il mondo che verrà; germogli pronti ad appassire, lampi di speranza destinati ad essere ridimensionati dal tempo, deboli spinte sufficienti a far precipitare chi si illude osservando gli uccelli planare.
Massimo Castri mette al centro della scena un grande tavolo circolare, intorno al quale fa ruotare i personaggi in cerca di un centro di gravità che non li porti a schizzare in tutte le direzioni chiedendosi ripetutamente dove stanno andando. Mentre la tavola viene imbandita, i commensali si accomodano su valige vuote come le loro speranze di cambiamento. All’inizio dell’opera il regista mostra l’esigenza di contenere la sua fine, come la nascita contiene il concetto di morte, introducendo passeggeri in attesa di un treno che non fermerà nella stazione dove essi, quasi casualmente, aspettano. I discorsi si accavallano senza rivelare un intreccio. Le speranze si diluiscono presto in delusioni, le aspirazioni in sospiri, gli slanci in ritirate. Ogni tanto un personaggio esce dal torpore, si accanisce su un argomento che più è vuoto e più lo vede meschino al centro del nulla in cerca di niente.
La sensazione di congelamento in attesa di un sole che riscaldi l’uomo del futuro è chiara, ciò che però lascia perplessi, nell’allestimento di Castri, è il ritmo e la recitazione. Delle tre sorelle solo Olga sembra salvarsi dagli eccessi di una declamazione ondeggiante, fatta di afflati e sospiri, struggimenti alternati ad indifferenti toni. Renato Scarpa strappa un applauso indotto dalle prime parole del suo ubriaco e strombettante monologo. La follia viene espressa attraverso stereotipi esteriori, la solitudine raccontata con personaggi girati di spalle e seduti ognuno sul proprio bagaglio. La lentezza si impossessa del pubblico e lo culla alle soglie del torpore; ogni tanto un acuto, un violino, un organetto, un accenno di ballo un grido ed un “a Mosca a Mosca” ridestano l’attenzione per un attimo. Il trombone, rimasto in agguato, lestamente torna a cullare lo spettatore nell’ottocentesca carrozzina che ondeggia sul palcoscenico, avvicinandolo a Fantozzi che, senza freni, precipita nella riedizione della coeva Corazzata Potemkin.
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